CONTROMATTINALE 277/22

Ieri sera ho deciso di ignorare alcuni titoli di film, programmati in televisione, a favore di un programma di Rai Storia che credo suonasse, nel titolo, “L’uomo che volle farsi Cesare” e che ci ha proposto Mussolini, dai suoi primi passi fino a piazzale Loreto. Già molti anni fa, addirittura dai tempi dei cine giornali e dai primi passi della televisione, avevo visto le immagini sgranate delle parate fasciste, dei comizi in cui la mimica del dittatore mi appariva ridicola ed incomprensibile. Oggi, rivedendo le immagini di una piazza Venezia gremita, posso perfino immaginare che quelle facce grottesche servissero per quelle folle che erano comunque distanti dall’oratore. Le immagini che definivo sgranate, grazie ai miracoli tecnologici attuali, ieri mi si sono proposte nitide e perfette e, salvo il brutto vezzo di colorarne alcune, me le sono godute, ovvero sofferte tutte e comunque.

Poter seguire in spazi temporali ridotti, quelli della trasmissione, le modifiche somatiche di Mussolini mi è apparso prezioso e infatti, vederlo sia pure stempiato ma ancora capelluto e poi del tutto calvo, mi ha aiutato a soppesare quei due decenni in cui sedusse milioni di italiani di ogni estrazione sociale e livello culturale. Troppo facile per me che conosco, come tutti voi, come sia andata tragicamente a finire, criticare ma quell’Italia un po’ tanto stracciona e molto rurale vedeva nell’uomo forte, quello che si faceva fotografare in canotta mentre fingeva di lavorare i campi, colui che poteva traghettarli verso benessere e nuova dignità.

Per fortuna quel seduttore di masse non riuscì a sedurre nessuno della mia famiglia, sia i Levi che i Foà, mentre pare che alcune importanti famiglie ebraiche italiane furono a lungo seguaci, salvo la doccia gelata del trentotto, quelle leggi razziste che una vulgata nostalgica cerca di considerare gestite “all’acqua di rose” come, profumato, dichiarò l’ultimo Savoia maschio, fra una esibizione danzante in tv e una insensata intervista mediatica. Fra i miti che per molti anni circolavano sul tema, grazie anche alla storia sentimentale fra Mussolini e la Sarfatti, c’era un dittatore riluttante nel seguire Hitler sul fronte antisemita e conseguenti leggi razziste. Pare che non fosse affatto così e che, al contrario, al di la della Sarfatti e di quel legame, Mussolini nutrisse da sempre tutti i peggiori pregiudizi antisemiti di probabile matrice cattolica. Diviso, infatti, fra romanità classica ed impero futuro, difficile per me valutare quanto visceralmente antisemita fosse lui per primo, indipendentemente dall’amicone Hitler, in arte Fuhrer e suo seguace, salvo poi invertire i rapporti di forza negli anni di Salò.

E la Petacci Claretta? Per molto tempo ce la raccontavano come una ingenua ed innamorata, forse manovrata da un padre maneggione ed arrivista e con una sorella che si era inventata un nome romantico per esibirsi in improbabili pellicole di Cinecittà allora emergente. Invece la Petacci Claretta, la cui tragica fine fu a lungo compianta, pare non si limitasse a scrivere intense lettere d’amore a Mussolini mentre quello consumava quotidiani rapidissimi amplessi con fasciste lusingate e disponibili ad attese di ore per minuti di eiaculazione frettolosa, come un caffè a prima mattina. Pare che la candida, innamorata, fedele amante del dittatore, fosse stata, nel suo piccolo, fomentatrice di odio antisemita. E allora come non considerare “la tragica fine della Petacci” come una giusta fine di una parabola, tragica e scellerata? Perfino quell’esposizione in piazzale Loreto, con la gonna capovolta che non copriva più le pudenda dell’amante del dittatore, serviva a segnare una chiusura definitiva con un passato nero. Nero per le camicie, nero per i labari, nero per le anime dei protagonisti come anche dei loro comprimari e complici.

E oggi? Oggi abbiamo un prevalere della destra, con un PD ai suoi minimi storici e con una coalizione di governo che è attorno al quaranta per cento ma che può governare, indisturbata a lungo. Eppure c’è chi può farlo, disturbare la manovratrice e potrebbe essere Salvini mentre Berlusconi può masticare amaro ma conta perfino meno del suo rappresentante al Governo, quel ministro Tajani che temo spaesato, anche se più serio ed attendibile del Caimano.

CONTROMATTINALE 276/22

Ieri sera, non so come mai, scartata l’ampia offerta cinematografica in televisione, ho istintivamente scelto di seguire una trasmissione che, per anni, ho rifuggito sistematicamente. Non saprei proprio dirvi cosa mi abbia spinto in quella direzione, forse qualche promo che aveva lavorato in maniera subliminale o, piuttosto, l’intento di essere aggiornato su una trasmissione che non vedevo da anni. Mi era accaduto tempo prima di essermi imbattuto in “Chi l’ha visto?” e, al di la di una sua modesta ma preziosa capacità di servizio, mi pare non si andasse. La trasmissione di ieri sera, basata su ricostruzioni filmate e su poche immagini originali, ci proponeva l’assurdo omicidio di una ventenne da parte del fidanzato, uno sbandato che veniva da una storia familiare davvero disgraziata,

Io credo, temo di sapere come, in barba ai movimenti femministi e al più recente Codice penale che ha cancellato alcune aberrazioni giuridiche, come il delitto d’onore che poteva alleggerire le posizioni penali di padri, mariti e perfino fratelli e figli assassini, certe efferatezze siano costanti. Il guaio serio è che i Codici, doverosamente per altro, non considerano adeguatamente i contesti in cui maturano i più efferati omicidi. Quello trattato ieri sera in trasmissione era stato commesso con un coltello che per decine di volte si era conficcato nel corpo della povera ragazza, non solo morta ma perfino deturpata da una furia omicida inarrestabile.

Quando ero un bimbetto la cronaca nera, nei suoi aspetti più raccapriccianti, si produceva per far prosperare editori come Rizzoli, Mondadori e Cino Del Duca. Mia madre e le sue amiche discutevano a volte commentando l’amante che aveva ucciso i figlioletti del maschio fedifrago o altre nefandezze d’epoca. Sospetto che in quelle manifestazioni di voyerismo collettivo ci fossero componenti molto morbose che potevano trovare soddisfazione, non trovando più normali sfoghi concretamente vissuti in prima persona.

Tornando all’emblematica vicenda di ieri sera, abbiamo una ragazza timida ed insicura, forse anche per la sua giovane età, che vive una storia d’amore malato, nel senso che il ragazzo la suborna, la taglia via dalle amicizie e perfino dagli affetti familiari. Lei per un po’ ci sta ma poi trova un nuovo spazio sia di nuovo con amici coetanei, sia in un corso professionale che la deve sradicare rispetto alla città di residenza. Lui non ci sta e la uccide, la massacra dopo averla attratta con un pretesto, a casa propria. Un raptus omicida classico? Parrebbe proprio di no, se si tiene conto di come, per alcuni dettagli emersi in fase di indagini, la cosa fosse stata pianificata con lucida follia. Se indulgo in questo luogo comune è perché, pur non essendo un criminologo, credo di sapere come ci possano essere delle forme di apparente logica, anche se aberrante, che muovono gli assassini.

Poco fa, o forse ieri sera, sentivo adombrare la possibilità che ci sia in giro un serial killer. Tre omicidi perpetrati a poche ore di distanza e commessi con modalità fotocopia sarebbero stati commessi dalla stessa mano. Qualcuno criticava il fatto che si fosse sottolineata la comune condizione di prostitute e che fossero, credo, due orientali ed una latino americana. Al di la del folclore, credo che la segnalazione potrebbe perfino avere una finalità sociale. Oggi che per fortuna le prostitute non sono schedate come avveniva circa settant’anni fa,metterle in guardia potrebbe perfino salvare qualche vita umana.

L’odio che molti uomini nutrono per il femminile è una costante che vive da sempre e che, spesso, trova complici le donne masochiste. Non vorrei affatto confondere innocenti giochi erotici o anche relazioni fortemente connotate in ambito sado maso. Millenni di dialettica fra i sessi non si annullano solo scendendo in piazza con le mani che mimano una vagina. Al di la della sessualità che le femministe arrabbiate risolvono tra loro, troppo spesso uomini e donne, evoluti socialmente, vivono fra le lenzuola comportamenti da cavernicoli, assecondando istinti non solo personali ma anche delle loro compagne. Perversi o naturali? Non mi interessa deciderlo ma so che ci sono e che dobbiamo tenerne conto.

CONTROMATTINALE 275/22

La guerra non piace a nessuno, spero, ma credo si sappia ancora distinguere fra aggressore ed aggredito e che questo secondo sia l’Ucraina mi sembra fuori discussione. Anche se Putin vorrebbe esorcizzare gli eventi utilizzando il vocabolario, non credo che ai morti interessasse sapere di essere coinvolti in azioni belliche o, piuttosto, di altra natura. I morti, da entrambe le parti, sono morti in guerra, come i feriti e gli invalidi. Gli edifici distrutti e gli sfollati in fuga non sono deliri di Zelensky ma questo non può perdonare l’ultima mossa del leader ucraino. Intendiamoci, se ho l’acqua alla gola, prima di annegare mi attacco a chiunque anche se, in quel modo, rischio la pelle del mio vicino di nuotata. E’ appunto quello che il presidente ucraino ha cercato di attivare ieri. Non solo dei colpi, partiti da casa sua, hanno ucciso due agricoltori polacchi ma ha cercato di scaricare l’incidente sulle spalle di Putin. Morire per Danzica può diventare morire per Zelensky?

Posso capire la disperazione di un leader politico che si trova, suo malgrado, implicato in un’orribile guerra che nessuno sa prevedere in quanto tempo e con quali esiti possa fermarsi. E’ anche possibile che il freddo rallenti ed anestetizzi le azioni belliche ma, se si combatte in città, non è come ai tempi della guerra in Russia, sotto attacco nazista, anzi tedesco ed italiano, magari in trincea. Le guerre moderne escludono le trincee ma includono, sempre più spesso, i civili che pagano sovente, prezzi enormi, inclusi la perdita della vita e lutti gravissimi, per non dire degli sfollamenti necessari per allontanarsi dalle zone più pericolose del Paese. Se due poveracci pagano con la vita il loro attendere ai lavori agricoli, credo di sapere che ogni santo giorno, in Italia, più di due persone rimangono uccise in incidenti stradali. Non basta, perché altrettante muoiono per incidenti sul lavoro mentre non so dire quante subiscano amputazioni e traumi gravissimi, ma non siamo in guerra. Non vedo allora manifestanti scendere in piazza per dimostrare contro le due nostre piaghe, solo parti di problemi interni molto penosi. Stamattina divulgavano dati impressionanti sull’inflazione, un tempo detta caro vita ed era forse meno asettica allora e più dolorosamente parlante. Dati allarmanti di cui, forse, vi racconterò diffusamente, domani.

Oggi registro invece un finto scandalo che vorrebbe colpire la nostra Presidente del Consiglio dei Ministri per una faccenda privatissima. Nella sue recentissima trasferta al G20 pare si fosse portata dietro Ginevra, non mia moglie ma sua figlia, dotate entrambe di questo inconsueto bel nome. Io credo fermamente che i rapporti privati, fra genitori e figli o fra coniugi, se non collidono col Codice Penale,debbano rimanere faccende private. La presenza a bordo del volo di Stato di Ginevra, potrebbe essere criticabile in famiglia ma, considerato che mamma Giorgia non sembra aver abusato della figlia Ginevra, saranno fatti loro se la piccola vola prematuramente fra Roma e il congresso internazionale? Una madre non precoce e in carriera può del tutto legittimamente portare la figlia in giro, come un bagaglio a mano e, forse, fra quindici anni, avremo una Ginevra che contesterà la mamma per il suo aver abusato, costringendola ad un viaggio scomodo, invece di averla lasciata in casa col Papà. Accetto scommesse sul tema.

Molti anni fa un nostro Capo dello Stato, vedovo, si faceva affiancare dalla figlia nubile e chiacchierata. Se allora andava bene quella donna, perché dovremmo criticare questa figlia che per età, non perde nemmeno ore di scuola? Abituato com’ero a vedere nei TG una Meloni vestita casual e col viso acqua e sapone, mi ha colpito vederla ieri sera al TG, non solo elegantemente vestita, un serio sobrio ma di gran classe, ma anche un trucco in viso che, forse, la imbelliva ma sicuramente la invecchiava. Non dubito che per la sua attuale carica, disponga di visagista e truccatrice ma era poi necessario lavorare così pesantemente? Meglio restare disoccupati che lavorare per invecchiare una persona che, fra i pochi lati positivi, può rivendicare la sua età, adeguata ai tempi attuali, quarantacinque anni e una figlia piccina. Più rappresentativa del nostro tempo, anche in questo gap, non potrebbe essere, vero?

CONTROMATTINALE 274/22

Chi mi conosce saprà ormai certamente come io ami il Cinema, come mezzo espressivo artistico, considerandolo da sempre, di pari dignità rispetto a tutte le altre, precedenti, forme d’arte visiva. L’ho scoperto forse settant’anni fa o perfino prima se posso ricordare sia i primissimi cartoni animati di Disney sia anche i film in B/N che vedevo coi miei genitori e che, spesso, non erano affatto adatti a me, in età prepuberale, nato ed esposto quindi ai traumi bellici. Non a caso, proprio i film di guerra riuscivano a turbarmi fino al punto di costringere mio padre a portarmi fuori dalla sala, contrito e quasi piangente, in attesa che le nostre due femmine completassero la visione. Eppure la mia passione per la settima arte nasceva già fin d’allora, dai miei primi anni, da quando mio padre veniva a prendermi in uscita dalla scuola media, di pomeriggio, per andare assieme a vedere l’ultima uscita cinematografica.

Erano gli anni in cui i settimanali Rizzoli grondavano d’immagini che erano truculente nel loro limitato bianco e nero e che ci mostravano il cadavere del bandito Giuliano col sangue che risultava nero, o anche la foto della donna nel cui armadio erano state rinvenute le salme di suoi figli non voluti e mai nati. Ghiotta programmazione quella di ieri in Rai Movie per ricordare Francesco Rosi, regista molto napoletano cui ero affezionato da quando i suoi film che ammiravo in sala, erano appena in uscita. Erano anni in cui si dibatteva, in contrasto fra l’asciutto bianco e nero, da Settimana Incom, e il colore, da quello hollywoodiano dell’incendio di Atlanta, in Via col vento, a quello Ferrania, pessimo, di Totò a colori.

Rosi e il suo cinema mi sono cari non solo perché si tratta di un autore cresciuto, come me, guardando Mergellina e Capri, non solo perché fu fra i primi che seguii con coinvolgimento pieno ma, soprattutto, per il suo mettere l’impegno civile in primissimo piano. Che i temi fossero la delinquenza dei mercati generali o quella del consiglio comunale, non faceva sconti a nessuno mentre, puntiglioso, costituiva un immenso archivio da cui poi attingeva per creare film su Mattei o su Pascalone e’ Nola. Ieri sera, uno speciale su di lui, credo a cura della figlia, integrando la programmazione, ci ha mostrato appunto tutto il materiale che Rosi gestiva ed elaborava per poi buttare giù le sceneggiature necessarie per la costruzione del piano di lavorazione e riprese successive.

Nella mia ingenuità, avrei giurato di aver visto sostanzialmente tutto il suo cinema ma noto come non sia affatto vero. Probabilmente il primo film che vidi fu La Sfida, ispirato liberamente dalla vicenda di un capo camorrista, noto come Pascalone e’ Nola, ucciso da concorrenti proprio nel mercato ortofrutticolo dove operava. Stranamente, sia quel personaggio come poi il palazzinaro del film Le mani sulla città, erano interpretati da attori stranieri. Il miracolo di rendere credibile Rod Steiger nella parte del bieco imprenditore edile lo potete constatare voi stessi, bastano solo due sequenze e dimenticherete come quello recitasse in inglese, dato che ignorava quasi tutto di Napoli, il dialetto soprattutto. Un grande attore, credibile nel suo cappottto di cachemere col collo permanentemente alzato ma poi anche perfino più credibile in un film di segno opposto, quell’Uomo del banco di pegni in cui è un ebreo ormai spento, subito dopo aver perso lungo i camini di Auschwitz il resto della sua famiglia. Immagino che Lumet e Rosi siamo stati, sia pure bravissimi entrambi, molto diversi eppure, disponendo di grandi interpreti li rendevano autentici anche in situazioni sceniche del tutto divaricare ed apparentemente inconciliabili.Attori italiani, come Volontè che interpretò più ruoli per Rosi, erano altrettanto bravi ma, esclusa la possibilità allora in voga di usare interpreti americani col solo obiettivo di aprirsi il ricco mercato d’oltre oceano, immagino vedesse in quelle maschere la giusta risposta alle sue esigenze creative.

Qualche necessario film documento, sulla tragedia dell’aereo ENI precipitato a pochi chilometri dallo scalo milanese ci ha mostrato un Mattei che, confesso, mi è apparso ben più vero nella parte di se stesso che non Volontè ma poi mi domando se non basti essere credibile senza dover essere vero, in ogni tipo di messa in scena, in proiezione come sul palcoscenico. Un’ultima nota; abbiamo visto, accanto all’archivio cartaceo, appunti e commenti come anche disegni e schizzi che anticipavano caratteri e perfino inquadrature. Un po’ come faceva Fellini e penso anche altri nostri autori cinematografici. A proposito, nel gioco della torre, chi buttereste giù, Rosi o Fellini? Anche se turbatissimo credo che salverei Francesco, perfino a danno di Federico, l’impegno civile che vince sui deliri creativi e sui fantasmi personali.

CONTROMATTINALE 273/22

Otto miliardi rappresentano una gran bella cifra se la rapportiamo ad un patrimonio, indipendentemente perfino dal tipo di valuta in cui questa venga espressa. Il guaio però è che quella cifra da capo giro non è in dollari, in euro o in yuan ma rappresenta la popolazione mondiale appena calcolata. Facile allora immaginare quanto poco potrebbe influire su questo fenomeno perfino una guerra isolata che potrebbe portare a decine di milioni di morti senza che questo cambi gran che l’equilibrio demografico terrestre. Altro sarebbe un conflitto mondiale con lanci di bombe atomiche che potrebbero comportare perfino un miliardo di umani in meno. In passato, fra guerre locali e pandemie pestilenziali, qualcosa di lontanamente paragonabile lo abbiamo già vissuto e perfino la Bibbia ci racconta di Noè e dell’arca. Insomma, se c’è poco da stare allegri ci si mettono anche i nostri politici a impensierire me, per la loro più che modesta qualità professionale. In queste ore il G20 è in piena attività e speriamo che in conclusione ne emergano decisioni operative, dato che in passato, al di la di dichiarazioni generiche non si era andati.

La buona notizia è l’incontro fra due Presidenti, il cinese e l’americano, in un momento in cui i rapporti bilaterali sembrano essere ai minimi storici. Un incontro ad alto livello, prolungato per oltre quattro ore mi fa sperare in qualcosa di positivo, non solo formalità diplomatiche ma discussione concreta su temi (li chiamano dossier in linguaggio diplomatico) scottanti oggi e anche nel prossimo futuro.Un grande Paese e un immenso quasi continente si parlano dunque per bocca dei rispettivi numero uno. E qui comincia a rivelarsi il nodo principale. Se Biden è a metà del suo primo mandato, ammesso e per nulla certo che ne avrà un secondo, al massimo può restare sulla scena politica internazionale per sei anni. Il suo asiatico collega, invece, pare sia stato recentemente legittimato a governare a vita. Già questo mette attorno al tavolo personaggi molto diversi fra loro ma non basta.

Il linguaggio è uno strumento fondamentale in ogni tipo di transazione, dall’acquisto di un pacchetto di sigarette effettuato all’estero fino alla firma di un trattato di pace. Linguaggio che è poi strumento di comunicazione e mediazione e, infatti, secoli addietro era stato scelto quello francese, forse sperando di ridurre così le possibili, numerose, aree di equivoci. Purtroppo però non esiste solo la parola come strumento di relazione e comunicazione come sanno, ad esempio, gli innamorati. Vorrei, giusto per spiegarmi meglio, riportarvi l’esperienza di un collega, un signore franco marocchino, ebreo trapiantato a Parigi. Mi raccontava, negli anni settanta, sue esperienze molto precedenti in cui si era recato in Cina per acquistare giocattoli da immettere poi nel mercato europeo.

Non saprei proprio dire come mai l’allora giovanissimo Hagege fosse stato spedito a Pechino con un biglietto di rientro a data aperta. Gli era stato detto da persone più esperte di lui che le trattative coi cinesi erano molto molto diverse da quelle cui era abituato, fra Marracash, Parigi e Milano. Infatti, arrivato in loco per acquistare bambole ed aprire, in quel modo, un nuovo mercato d’importazione per la sua azienda, si trovò schierata di fronte a lui una delegazione gentilissima che gli offriva tutt’altra mercanzia che non avrebbe potuto soddisfare il mercato, ovvero i gusti dei piccoli bastardi nostrani. Mi scuserete, mamme e nonne, se uso lo stesso appellativo che adottammo fra addetti ai lavori e che immagino non sia gran che cambiato da quando non frequento più quel mondo. Tornando al giovane Hagege, giorno dopo giorno cambiavano le delegazioni ma non le proposte commerciali fino alla sera in cui il poveretto si decise per il rientro. Una volta chiuso il biglietto con data di rientro certa, la delegazione arrivò finalmente con proposte coerenti con le sue richieste originali e, in poche ore, si chiuse con soddisfazione una trattativa che lunghi giorni non erano riusciti nemmeno ad aprire.

La mia memoria potrebbe essere solo una schiocchezza ma io credo che un eccellente modo per negoziare presupponga conoscenza non solo della materia da trattare quanto, altrettanto importante, il contesto in cui si tratta. Noi occidentali tendiamo a considerare corretto solo il nostro modo di negoziare, dimenticando di interpretare e, se necessario, adottare quello dei nostri interlocutori, specie se formati a Pechino o a Mosca e non a Parigi o a New York.

CONTROMATTINALE 272/22

Lo so, in molti mi considerano pignolo e, forse, anche pedante. Almeno uno di voi che siete miei lettori costanti e pazienti, un amico per cui ho lavorato negli anni novanta fino a chiudere la mia lunga vicenda professionale. Sono pignolo se vi dico che provo fastidio nel sentire confondere il verbo centrare, ovvero colpire al centro, col riflessivo di entrare? Appena poco fa, una telefonata via radio, da parte di un’ascoltatrice dalla parlantina fluida e perfino colta mi ha riproposto il tema ed, essendo stato detto e non scritto, non saprò mai se fosse inteso come c’entrare o solo centrare. Molti anni fa, un mio compianto amico e socio, uno che aveva letto dieci volte più di me, fra buona letteratura e saggistica varia, dotato di una biblioteca che mi faceva sognare, commetteva identico errore. Li perdoniamo o mi è permesso un minimo di biasimo, senza essere accusato di pignolite acuta?

Pignolo per pignolo, posso dire che l’attentato in Turchia mi suona come un penoso deja vu? Possibile che a distanza di poche ore dalla faccenda si sia stati in grado di definire la matrice dell’attentato, identificarne gli esecutori materiali e, perfino, arrestarli tutti e subito? Non siamo nati ieri e nemmeno ieri l’altro, ricordiamo per averli subiti in tempo reale gli attentati attribuiti alle Brigate Rosse. Ricordiamo la brutta storia della pista anarchica, nel caso delle bombe di piazza Fontana a Milano con l’incredibile suicidio dell’anarchico Pinelli mentre era in questura, sottoposto ad interrogatorio. Ricordiamo le bombe abbandonate sui treni e la strage alla stazione ferroviaria di Bologna, ricordata in loco da una sobria lapide. Spero ricordiate come, a distanza di tempo, emerse la figura di Licio Gelli, un figuro di cui avevo sentito parlare da un massone, mio collega negli anni settanta, forse lui stesso affiliato alla P2 di cui mi accennava perfino e credo di aver capito come il burattinaio, come lo chiamavano i giornali, potesse aver mosso i fili di eventi tragici che funestarono le nostre vite, in quei lunghi anni settanta.

Se Gelli morì nel suo letto, le vittime dilaniate dalle bombe non ebbero lo stesso destino, mentre Pinelli fu suicidato e il suo amico libraio, piccola libreria anarchica a pochi passi dal mio ufficio milanese in Garibaldi, vide rovinata la sua vita civile, anche se Camilla Cederna e altri intellettuali di sinistra si prodigarono per assisterlo, non solo moralmente ma anche legalmente. Per fortuna quella stagione, come usano definire quei momentacci, è archiviata mentre siamo passati a momenti non brillanti ma, almeno, meno funesti e sanguinari. Li ricordo solo per proporvi analogie. Infatti gli attentati, il terrorismo in genere, sono funzionali ad obiettivi, generici come anche specifici. Erdogan è al potere da tempo ma non saprei proprio valutare se sia stabile o traballante. Lui però lo sa. Dispone di servizi, più o meno segreti, in grado di fornirgli dati aggiornati sulla sua popolarità, in patria come all’estero. Penso che soprattutto il rapporto con l’Europa gli stia a cuore e cosa di meglio se non essere vittima di attentati, prontamente, fin troppo, attribuiti al PKK e con nomi e cognomi immediatamente disponibili?

Intendiamoci bene; non escludo affatto che le mani esecutive siano state quelle e perfino che le nostre bombe, sui treni e nelle piazze fossero piazzate da anarchici fuori di testa. Credo però di sapere da sempre, convinzione poi confermata da fatti concreti e perfino sentenze penali, non mio complottismo d’accatto, che non ci si deve mai fermare alla prima impressione. La storia dell’umanità è costellata di complotti (tu quoque, fili mi) sempre verdi e sarà allora per questo che non posso credere nemmeno ad una singola parola da parte turca? Così come, visto che siamo in tema, non mi fido per nulla di quello che ci racconta l’Ungheria, frettolosamente acquisita all’Europa unita anche se dalla dubbia democrazia. Non ci bastavano i problemi intercorrenti fra Paesi di più solida democrazia, ci scappava proprio di portarci in casa Paesi che mai conobbero democrazie rappresentative ma dovevamo disturbare il manovratore russo ed eccoci qua.

CONTROMATTINALE 271/22

Credo che da molti anni, da generazioni varie, ci sia un asse Italia Stati Uniti d’America che, volendo, potremmo collegare sia all’Amerigo che ha denominato quel continente, sia a quel Colombo, forse marrano e sicuramente genovese che vi approdò nel millequattrocentonovantadue, una delle poche date che ricordo da sempre, essendo io nato nel millenovecentoquarantadue. Momentaccio per tutti quello, ma soprattutto per i miei, colpiti prima dalle leggi razziste e poi dall’invasione della Grecia, con mio padre cittadino ellenico e mia madre divenuta greca per matrimonio. Non stupirà quindi se vi dico che anche io avevo non un solo zio d’America ma due o tre. Equamente ripartiti fra un fratello di mia madre ed uno di mio padre, entrambi newyorkesi, per breve tempo anche una sorella di mia madre, con marito e figli, se ne stava a Buenos Aires, evitando così la guerra europea ma sorbettandosi le proverbiali instabilità locali di matrice peronista. Non a caso dopo pochi anni se ne tornarono a Roma da dove erano, letteralmente, fuggiti nel famigerato trentotto. Perfino mio padre si era formato, nel corso di sette anni in cui aveva frequentato high school e poi Harvard, negli USA cui era affettivamente legato e che conosceva da prima dell’Italia, dove approdò per ritrovare la famiglia ellenica, trasferita nel frattempo nella baia di Napoli.

Lunga premessa per dirvi come io possa sentirmi contiguo affettivamente nei confronti di quel grande Paese in cui, tuttora, vive una mia cugina Foà, con cui sono in contatto e una sua sorella minore che ho perso ormai di vista ma, soprattutto, il mio grande vecchio, l’ultimo amore di mia sorella, ebreo napoletano, a lungo newyorker di successo ma da molti decenni ad Atlanta, in Georgia, dove è bisnonno di ragazzini già grandicelli ormai. Se volessi millantare, potrei sostenere di avere almeno quattro occhi che vedono, in maniera competente, una giornalista ed un imprenditore di successo, le vicende d’oltre oceano con sguardi disincantati e molto colti. Il loro sgomento è anche il mio.

Comunico con i miei parenti americani in video conferenza, nessuna mediazione della pagina scritta ma, piuttosto, la visibilità palese delle emozioni sui visi dei miei interlocutori. La perplessità è il primo stato d’animo che posso leggere in un viso centenario, quello di Mario che è, per altro, lucido e memore ben più di me. Sappiamo tutti come gli USA, nel bene come nel male, abbiano rappresentato la Democrazia, quella moderna e post rivoluzionaria. Anche se si ricorda come ci sia stata una rivoluzione americana che portò poi a trasformare una colonia britannica in una Nazione moderna che per secoli ha fatto da luce democratica al di la dell’Atlantico. Fu necessaria una guerra civile fra Sud e Nord per unire i due tronconi e si esordì con l’assassinio di Abramo Lincoln, tanto per anticipare le tante schifezze successive.

Oggi abbiamo un ex Presidente che non si accontenta di essere stato ispiratore, sicuramente, forse perfino mandante dell’assalto di Capitol Hill. Oggi quel Presidente Trump che pure fu eletto democraticamente, grida ai brogli elettorali e dimentica sia il suo ruolo, sia pure di ex, come anche la fiducia nelle istituzioni che garantiscono la tenuta democratica del Grande Paese. Un Paese che ha espresso in passato grandi capacità tecnologiche, prima industriali e poi sempre più terziarizzate, fra Wall Street e la famigerata Silicon Valley dove si crearono sistemi telematici sempre più sofisticati. Ebbene, ancora oggi, a distanza di giorni dalle votazioni, non è del tutto definita la composizione di Camera e Senato. Si aspetta la conta, tuttora in corso, delle schede che furono compilate al di fuori dagli USA. Non sono affatto un complottista ma trovo, comunque, ridicolo che sia trascorso tanto tempo prima di avere il quadro definitivo delle due Camere USA. Mi domando, con sincera costernazione, come reagirebbe un Paese che impiega settimane per definire il rinnovo di sue importanti istituzioni, con quali tempi, in caso di conflitto nucleare. Brividi.

CONTROMATTINALE 270/22

Ci dicono e ne avevo comunque sentore che tempo fa, da poco per la verità, l’asse Berlino Parigi sia stato soppiantato da un ben più recente asse Roma Parigi. Complice la statura europea del nostro capo del Governo del momento, l’ago della bilancia aveva spostato la propria posizione. Poi la normalizzazione, con l’arrivo di un governo politico, subentrato a quello tecnico, ha ribaltato la situazione. Eppure pare proprio che Draghi, vuoi per dato caratteriale o anche per formazione e posizione internazionale, si fosse prodigato nel trasferire, illustrando in dettaglio i tanti dossier caldi che stava lasciando in eredità alla subentrante Meloni. Pare proprio che tale procedura non sia abituale mentre è stata messa in atto con fair play istituzionale appunto da Draghi. Non sono francamente in grado di valutare sia le ragioni profonde che le modalità della cosa ma, in poche settimane la nostra Presidente del consiglio dei Ministri è riuscita a capovolgere la situazione, zero continuità. La brutta faccenda dei richiedenti asilo respinti dalla Francia non so dire se sia causa o effetto di quanto si sta rilevando da parte degli analisti politici.

Ricordo spesso i tempi remoti in cui a scuola ci facevano scrivere degli elaborati d’italiano sul tema europeo. Nessuno ci aveva mai raccontato nulla su Altiero Spinelli e sul Manifesto di Ventotene e infatti ne lessi ed appresi molti anni dopo. Eravamo impreparati e ci volle del tempo per passare dalla comunità del “carbone e dell’acciaio” all’eliminazione dei passaporti necessari per recarci a Nizza o a Innsbruck. Oggi, volendo, prendi un volo per Parigi, pranzi in centro e torni a casa limitandoti ad esibire la carta d’identità. Una modalità questa che è considerata ormai normale per i nostri giovanissimi che si dotano di passaporto solo per viaggi transoceanici mentre, per un Erasmus o per amicali incontri in giro per l’Europa, considerano normale l’utilizzo della carta d’identità. Passi avanti impensabili ai miei tempi ma ci pensa adesso una giovane donna a riportare indietro gli orologi.

Mi sforzo, non so proprio però con quanto successo, di guardare le mosse del nuovo Governo con lucida freddezza. Lasciamoli lavorare è una frase che ci arriva da tempi ormai lontani ma mi preoccupa proprio il lavorio dei primissimi giorni, con le priorità che sembrano porsi. Non nego che il problema dei confini marinari, delle acque territoriali italiane, delle ingerenze di navi straniere non sia scottante. Ma era scottante il contante, forse? Temo lo fosse ma solo per motivazioni di basso livello elettorale, per complicità coi bottegai che possono essere più facilmente piccoli evasori fiscali. Quelli grandi hanno, invece e da sempre, strumenti ben più sofisticati e sicuri, protetti da banche e transazioni autentiche o finte, comunque inattaccabili, specie se non si vuole attaccarle.

La discontinuità che il nuovo Governo vuole sottolineare viene resa evidente in norme appena varate o allo studio che rendono facile l’evasione fiscale dei ricchi e modificano, in corso d’opera, il bonus edilizio che viene ridotto e forse messo perfino in dubbio per il prossimo futuro. Se la destra, normalmente, promette stabilità, questa recentissima sta evidenziando l’opposto in cui non è difficile intravvedere come, al di la di accordi formali, i tre Partiti siano sostanzialmente in disaccordo su quasi tutto. Quasi, perché su una cosa sono certamente unanimi. Tenersi il potere, non alla faccia degli immigrati clandestini quanto, piuttosto, di noi elettori declassati al rango scomodo di sudditi.

CONTROMATTINALE 269/22

Piperno è un cognome che mi è molto familiare, a Napoli dove mi sono formato, una famiglia con quel cognome era amica della mia famiglia e ricordo un fratello maggiore ed una sorella che aveva lo stesso nome della mia. Quando ho sentito citare la vicenda della blogger (sic) mi ha colpito il suo cognome che mi ha riportato non solo alla mia infanzia ma anche ad un non recentissimo autore romano ed al suo romanzo, letto anni fa ma che non ritengo immemorabile, al di la della mia endemica evanescenza mentale. Alessia Piperno, globe trotter e blogger trentenne è libera e rientrata in famiglia. Una storia a lieto fine che si è risolta in circa un mese e mezzo. Pochi giorni se consideriamo la normalità ma un periodo difficile, forse eterno, se sei in prigione e non alla Giudecca ma in Iran.

Vi cito la zona di casa mia perché a pochi passi da qui, alle spalle, abbiamo il locale carcere femminile, pare reso accettabile da una gestione umana e orientata al recupero delle recluse. Mi capita spesso di vedere passare qualche bimbetto di colore che alcune volontarie portano a spasso o trasferiscono, di mattina, dal carcere ad un asilo tenuto da suore. Non basta, perché ancora di mattina, davanti alla porta d’ingresso, una bancarella propone in vendita pochi prodotti dell’orto che alcune detenute gestiscono e che poi sono lì fuori, commesse improvvisate. Non dubito che altre carceri femminili siano ben più intasate e rigorose ma questa è la mia esperienza diretta mentre quelle che mi arrivavano da amici che insegnavano nel carcere di Padova erano coerenti con quanto vi racconto.

Dubito assai che un carcere femminile di Caracas o di Bombay possa essere messo a confronto con uno di Stoccolma o di Copenhagen ma, se dovessi scegliere, non avrei dubbi su dove vorrei passare quaranta giorni e quaranta notti. La blogger (ma che mestiere è?) se ne stava in Iran da dove mandava notizie e commenti relativi alla condizione femminile in quel Paese maschilista ed oscurantista. Ora, dico io: non ti basta di essere ebrea in un Paese che definire ostile verso il mondo ebraico è eufemistico. Non ti basta fermartici a lungo pur non essendo sotto una protezione maschile, inutile altrove ma qualificante in un paese in cui arrestano le donne che si azzardano a guidare un’auto in assenza di un maschio. Non ti basta conoscere “Leggere Lolita a Teheran” per immaginare possibili guai con i così detti guardiani della rivoluzione, teppisti in moto che pattugliano e picchiano reali o immaginari nemici o solo trasgressori. Vuoi fare l’eroina in trasferta? Prima dimmi se hai notizia di quella scriteriata che se ne andava in giro, in bicicletta, vestita da sposa, non a Rimini ma da qualche parte molto poco tranquilla, a Istanbul dove anni fa fu assassinata e immagino prima violentata, anche se Istanbul non è Tehran e nemmeno Kabul, parrebbe più democratica e cosmopolita.

Inutile dire che sono molto lieto per lei e per i suoi genitori e amici mentre apprezzo l’intervento diplomatico che, senza pubblicità in corso d’opera, ha sbloccato una situazione che avrebbe potuto trascinarsi nel tempo, con risvolti decisamente antipatici. Noi ebrei abbiamo, sia per DNA che per cultura acquisita, grande ansia di libertà e democrazia. Non è affatto un caso se le madri argentine che manifestavano in piazza per avere almeno i corpi dei loro figli e figlie assassinati dalla polizia vedevano una presenza importante di ebree, dolenti sotto quei famigerati fazzoletti che ne coprivano il capo. Siamo dei rompiscatole che prendono sul serio i dettami del Libro e arriviamo perfino a batterci a favore di chi ci è formalmente ostile. Se però una ragazza si mette in testa di combattere guerre personali ed isolate non andrebbe certo incoraggiata. Sono un reazionario se propongo il ritiro sine die del passaporto? Con la carta d’identità ormai può andare in giro per l’Europa, non le basta?

Blogger, ma che mestiere sarebbe?

CONTROMATTINALE 268/22

La temuta debacle dei democratici in USA pare proprio non ci sia stata mentre il revanchista Trump ci dicono esca malconcio, all’interno del suo stesso partito. Il Presidente Biden non può forse sentirsi trionfante ma potrebbe, quanto meno, sentirsi rinfrancato, fra due anni non avrà il temuto concorrente ad ostacolagli il rinnovo del contratto. Infatti le elezioni sono dei veri e propri contratti che si stipulano fra candidati politici e loro elettori che sposano i programmi e che premiano o bocciano l’azione concreta, svolta nel passato. Non ho avuto ancora modo di comunicare e rilevare i commenti di coloro che, auto ironico, definisco i miei due corrispondenti, da New York e da Atlanta. Proprio questa città che è capitale della Georgia non è ancora definitivamente connotata e vedremo a spoglio definitivo come si andrà a piazzare, coi commenti del mio centenario osservatore in loco.

A livello nazionale pare che stia emergendo un giovane repubblicano che è in piena corsa per vincere primarie che sceglieranno, a tempo debito, lo sfidante di Biden e, nome italiano, età dimezzata rispetto a quella dello sfidato, sarebbe la figura giusta ma ce lo raccontano come un cattolico estremamente conservatore, anti abortista ed anti molte altre conquiste sociali, ormai consolidate nel tempo e nella maggioranza degli Stati che contano davvero. Abbiamo ancora due anni per osservare e registrare cosa accadrà mentre, nel frattempo, situazioni ben più drammatiche potranno cambiare scenari e perfino orizzonti. Fra le tante variabili, segnalo l’andamento bellico in Ucraina, con gli aggressori in serie difficoltà tecniche e, soprattutto, motivazionali.

Poco fa, dalla rassegna stampa, sentivo leggere un articolo di un Brera figlio, esperto di Russia oggi ma già attento a quanto avveniva in fase ancora sovietica. La cosa mi ha proiettato indietro di circa trent’anni e più. Frequentava i nostri uffici essendo amico del mio socio e vagheggiava un nostro aprirci al nuovo corso moscovita, con un’agenzia pubblicitaria nostra filiale, da lui diretta. Era un momento estremamente delicato per noi che, per fortuna, non aderimmo ma in quel momento ci capitò l’opportunità di una cena con Gianni Brera, autentico guru del giornalismo sportivo. Detta così parrebbe una faccenda interessante e lo fu, non nel senso auspicato.

Pare che Brera padre avesse l’abitudine di organizzare una cena mensile in cui radunava amici giornalisti con cui si intratteneva sui fatti del momento. Il ristorante era sempre lo stesso, in zona Brera ovviamente, temo che anche il menu fosse costante e comunque uniforme per tutti, così anche il conto, salatissimo, era facile da ripartire ed incassare. Peccato che non si fosse a tavola in sei, otto o dodici ma che la sala principale fosse monopolizzata da una cinquantina di fans del giornalista il quale era a mala pena visibile in lontananza mentre Brera figlio conversava con noi, proponendo mirabilie economiche future. Per fortuna quella volta perfino il mio socio si rese conto dell’assurdità della faccenda e mollammo la presa, scelta saggia ma che non ci aiutò comunque a superare il nostro momentaccio.

Sono passati ormai troppi anni perché io possa ricordare correttamente la tragica morte del padre ma credo fosse stato il fratello del nostro conoscente ad essere genero di Brunella Gasperini, non lui stesso. Per chi non ricorda, dirò come la giornalista fosse stata una guru in gonnella per le donne dell’età prefemminista. Ricordo mia sorella che leggeva i suoi editoriali in una testata di moda in cui intratteneva, come usava allora, le lettrici con la immancabile “posta”, utile ad introdurre temi attuali, sempre verdi come infedeltà maschili, ma anche femminili e miserie coniugali, note allora come oggi. “Allora” erano anni a cavallo fra i cinquanta ed i sessanta, preistoria ma sempre verde su alcuni temi ricorrenti e così, dopo parecchi decenni, mi riappare l’ex esperto di sovietici che commenta i post sovietici. Un Brera post Brera?