CONTROMATTINALE 287/22

Si può morire a causa di un berrettino da base ball? Si può, eccome e non c’entra affatto il tifo sportivo che, in più circostanze, ha portato ad eccessi di violenza teppistica, con feriti e morti, perfino a seguito di colpi d’arma da fuoco. Non sto riferendomi affatto agli eccessi latino americani come anche britannici ma ad episodi accaduti qui da noi, in Europa come anche in Italia. Nel caso specifico pare che il berrettino però fosse in testa ad una ragazza, massacrata perché indossava un capo d’abbigliamento considerato lecito se fosse stato in testa ad un fratello o al padre ma sacrilego, meritevole di lapidazione se indossato da una fanciulla. Il riconoscimento del cadavere pare sia stato molto difficile a causa dalle condizioni in cui era stata messa la vittima, massacrata di botte al punto di essere non facilmente identificabile da parte dei parenti. Temo che al dato fisico, orribilmente oggettivo, vada aggiunto il rischio non da sottovalutare che corrono, forse considerati responsabili della blasfemia, per quella ragazza che osava indossare un cappellino da maschio occidentale e non il velo, come si richiede alle donne di buon costume.

Un simbolo, forse sportivo, ha portato alla morte una ragazza che non sapremo mai se fosse davvero ribelle matura o, semplicemente, desiderosa di sentirsi alla moda come le sue coetanee di New York o Londra, Madrid e Roma. Nessuno infatti osa uccidere o molestare una ragazza per un cappellino da base ball. Qui da noi si uccide comunque ma per ragioni ben più solide. Metti ad esempio, quella ragazza straniera che però è cresciuta in Italia, divisa fra tradizioni familiari importate e suggestioni sentimentali, rappresentare da un amore locale, solo in quanto tale, disapprovato dalla famiglia al gran completo. Non a caso tutta la famiglia, a vari livelli di coinvolgimento, si è adoperata per lavare l’onta uccidendo la ragazza e cercando di farla sparire anche come cadavere.Abbiamo visto, perfino in più circostanze quelle immagini, orribili per quanto possono rappresentare, coi maschi che rientrano, pale in mano, dall’interramento del cadavere della ragazza, loro sorella e figlia. Se tutta la famiglia è incriminata e in galera, salvo credo la madre che è agli arresti domiciliari, lo dobbiamo al nostro sistema giudiziario e alla revisione del Codice penale che, quando ero ancora un ragazzetto, prevedeva il delitto d’onore. Una norma che attenuava la condanna, fino a clamorosi casi di proscioglimento.

Se il nostro costume, negli ultimi sessanta o settanta anni, si è evoluto, ci sono Paesi che hanno fatto lo stesso percorso a ritroso. Poteva non piacerci l’Iran dell’ultimo Scià, fra due mogli molto rappresentate nella stampa gossip e perfino con una sorella che ci veniva raccontata come la belva di Tehran, bella e crudele come si vuole nei romanzi esotici. In quegli anni un mio amico era stato per lavoro nella capitale persiana e ne era tornato indignato. Al tasso di inquinamento elevatissimo faceva riscontro una vita notturna inesistente e non so dire se fosse subito prima o, piuttosto, col rientro di Khomeini dal suo esilio europeo. Penso fosse prima ma so che il dopo Scià è stato molto peggio rispetto ai tempi in cui Reza Pahlavi, autoritario quanto volete, ripudiava la bella Soraya per la più giovane e fertile, bellina quanto basta per dargli finalmente un erede al trono, Ciro secondo la tradizione ma poi Ciro il piccolo, dal momento in cui dovette riparare all’estero con mammà, per salvare il collo di entrambi.

Un passo avanti e due indietro in molti Paesi del Terzo mondo ma non è mica detto che siano solo loro a soffrire dittature e prevaricazioni. Non bastano gli scontri fra Paesi a differente sviluppo, come si diceva e scriveva ai tempi ormai remoti della mia tesi di laurea che, appunto, entrava proprio in quella magmatica materia. Da quel lontano millenovecentosessantasei avremmo dovuto e forse potuto fare molti passi avanti in politica internazionale ma non è stato affatto così. A quelli tecnologici, fra realtà virtuale e virtualità reale, non si affiancano analoghi progressi socio politici. In troppe parti del mondo e anche noi fra questi, prevalgono governi democratici molto spostati a destra. Possiamo lamentare un Orban da un lato e gloriarci per la prima volta di una donna a capo del Governo. Peccato sia una ex fascista, post fascista o come meglio credete definirla ma, ad andar bene, avrà Margareth Thatcher come punto di riferimento, come benchmark, vocabolo di gran moda forse quaranta o cinquanta anni fa e oggi dimenticato. C.V.D. come da studenti scrivevamo a conclusione di un teorema.

CONTROMATTINALE 286/22

Il vecchio detto “L’abito non fa il monaco”credo proprio che andrebbe ribaltato. L’abito fa il monaco, eccome. Infatti se è vero che ognuno di noi, superati i quarant’anni è responsabile della faccia che porta in giro e che esibisce, è perfino anche più responsabile del proprio abbigliamento, di quel look di cui ci parlano gli addetti alla moda, intesa come industria dell’abbigliamento e che è risultato di scelte, più o meno deliberate. Ho in mente due esempi attuali che vi proporrò. Avete presente quel Conte che si propone impeccabile, non solo idealmente appena uscito dalla doccia, con la cravatta perfettamente annodata e l’immancabile completo scuro? Il suo posizionamento personale è chiaro ma si riverbera su tutto il Movimento che nel passato, prossimo e remoto, aveva proposto un Grillo scamiciato e scomposto. Passato dal costume da bagno che usò per nuotare nello stretto di Messina a giacche rabberciate che gli servivano solo per essere accettato a Montecitorio come spettatore dall’alto del loggione, l’ex comico che ha smesso di far ridere da parecchi decenni, è molto diverso dall’attuale leader Conte.

E Salvini? Superata la fase delle camicie verdi ma anche quella estiva, in spiaggia, col cappellino e t shirt con le insegne della Polizia di Stato, non si mostra mai in giacca e cravatta. Immagino che, come tutti, quando entra in Parlamento sia tenuto a rispettare il decoro richiesto ma è abilissimo nel non mostrarsi mai in tenuta formale. Uno che invece non è tenuto a quel tipo di forma è Landini che da sempre ignora le cravatte, una moda che comincia ad essere adottata anche da alcuni politici nazionali, forse non di primissimo piano ma hai visto mai che non siano antesignani di un nuovo look politico, quello stesso che non per moda ma per necessità ci mostravano Ben Gurion e Moshe Dayan? Anni fa, ormai molti, avevo incontrato in un bar milanese, più alla moda che chic, più di quartiere che non del centro città, l’allora segretaria della CGIL. Quella signora che vedevo spesso nei Tg, col cappellino sindacale e col fazzoletto al collo davanti alle fabbriche occupate, fra Bagnoli, Taranto e Sesto san Giovanni, alla domenica mattina, per l’aperitivo, non solo era vestita e truccata accuratamente, non solo si era fatta pettinare da un coiffeur ma, orripilate, era coperta da una pelliccia che non posso giurare fosse davvero animale e non ecologica ma pur sempre pelliccia, nelle intenzioni, era e voleva essere.

L’abito non fa il monaco forse, ma ci propone le persone per come sono e per come vorrebbero essere e perfino per come intendono essere ricordate. Allora, fra un Grillo scamiciato ed urlante, un suo impeccabile, quasi fin troppo successore e un Salvini stazzonato ormai sia nelle scelte di abbigliamento che nel look, appesantito inevitabilmente dagli anni, emergono i vari posizionamenti dei Partiti politici, autentiche marche aziendali che seguono principi di marketing politico quando, piuttosto, non seguono le vecchie marchette in uso nelle case, quelle chiuse da un pezzo, ai tempi della senatrice Merlin. La ricordo ancora, quasi sessant’anni fa, mangiare seduta ad un tavolo contiguo al mio. No, non era il Savini e nemmeno una trattoria toscana, una delle tante che allora determinavano la gastronomia milanese. Eravamo nella sala mensa di una casa albergo comunale, a ridosso di san Babila e Palazzo di giustizia, una sistemazione spartana che vedeva due costruzioni distinte, quella femminile e quella maschile che avevano al cento la portineria e i servizi, ovvero la mensa e un bar, perfino più essenziale della mensa di cui posso ricordare perfino il burbero gestore, anche a distanza di così tanti anni.

I nostri politici, dunque, smemorati perfino più di me, tendono a dimenticare i condoni edilizi che sono spesso causa successiva di tragedie come quella di Ischia Casamicciola. Non so se i politici che si sono dati un gran da fare per far condonare una veranda abusiva come l’edificio di otto piani, perfino tirato su nel letto di un fiume solo apparentemente morto, lo facciano per creare popolarità a loro favore o, addirittura, si tratti di scambi di favori con imprese pirata, a finalità elettorali. So solo che, a sbeffeggiare le regole edilizie sono soprattutto i meridionali, i politici locali che inseguono bisogni reali che andrebbero però soddisfatti in maniera ben più saggia e lungimirante. Non così avvenne alle falde del Vesuvio, un tema che non trovo più citato anche se il vulcano sonnecchia sornione. Non l’ho mai visto col pennacchio e mi auguro di non doverlo vedere mai perché, nel caso, non una decina di morti ma forse centinaia se non migliaia di vittime ci verrebbero narrate come sfortunate e non, piuttosto, frutto di irresponsabilità, pubblica e privata.

CONTROMATTINALE 285/22

Anche se è domenica mi ritroverò a scrivere, ancora una volta, non un pezzo lieve e magari ironico come programmavo anni fa, almeno per le giornate festive quanto, piuttosto, un pezzo tutto napoletano ma per niente allegro. Nelle ultime ore il film sulla morte di Caccioppoli, la drammatica attualità ischitana poi si affiancava al passato remoto e veniva solo in parte anche dalla replica di Report. Tre trasmissioni solo casualmente molto contigue, per geografia, sulla stessa rete. In questo caso di attualità dal golfo, alla bella notizia del risveglio della pizza verace ma dai forni sanificati, si affiancava una cupa storia di abusi edilizi perpetrati dalla Curia, con il cardinale che inveiva contro chi fa il propio mestiere d’informazione. Poco fa, qualcuno che nemmeno conosco, mi accusava di essere anti napoletano, dimentico forse di come lo siano, piuttosto, i conniventi e coloro che sono pronti a perdonare tutto in nome della napoletanità. Il film di Martone, apparentemente molto intimista, ha invece anche spunti di critica sociale. Anzitutto l’ambiente. Se Napoli è la città del sole, non serve citare il famigerato cambiamento climatico. Già settanta e più anni prima, la mia bella e panoramica casa che affacciava sul Golfo era flagellata da venti e pioggia accompagnati da un freddo contro cui non eravamo affatto attrezzati. Ricordo, anzi, ma ero già al liceo, un impermeabile che lordai con l’olio che feci colare da una pizza piegata a portafoglio.

Il mio trench, di cui ero fiero e che resi irrecuperabile l’ho recuperato, appunto ieri, indossato dal professor Caccioppoli, il matematico del titolo. Quello proposto dal costumista era perfino bello, quello autentico era tenuto su, chiuso non da una cinta ma da uno spago da pacchi. Ve lo posso testimoniare in seconda battuta perché il professore, assieme a sua zia, la professoressa Bakunin, era la bestia nera degli studenti di Ingegneria, come quel mio cugino Foà, molto più adulto di me che ci raccontava i fasti e nefasti di zia e nipote, divaricati in tutto, salvo nell’essere entrambi presenti negli incubi degli studenti di quella generazione. Se la zia, parente stretta di un famoso rivoluzionario russo, era venuta nel Golfo a insegnare matematica ai futuri ingegneri, li esaminava facendosi accompagnare in aula da una cagnetta rabbiosa, il nipote poteva sia massacrare gli esaminandi un giorno e sia poi perfino graziarli, generoso perfino nelle votazioni, l’indomani. Se il suo esame poteva essere una specie di roulette russa per i giovani, lui non si sottopose affatto alla medesima ma si sparò un solo colpo alla nuca per essere certo di non sbagliare.

Confesso di non intrattenere un rapporto sereno con le isole del Golfo ma se ho tuttora un debole per Capri, arrivo a detestare Ischia. Per molti anni la prima mi dava il buon giorno quando appena sveglio, come Raffaele La Capria, lui a Posillipo ed io in mezza collina, affacciati verso il mare, si decideva se fosse una bella giornata. Ce n’erano alcune invernali che mi permettevano perfino di distinguere Anacapri e più in basso il porto, la Marina grande. No, i Faraglioni è impossibile dato che sono a Marina piccola, ovvero sull’altro versante, quello della famosa Grotta Azzurra.

Tornando al film sulle ultime giornate di Caccioppoli, la scelta di Martone è stata quella di mostrarci ambienti bui e notturni, primi piani che ci evidenziavano barba non rasata e solo nella lunga scena del funerale laico si recupera luce diurna. Sequenza lunga in cui abbiamo il contrappunto, quasi musicale come musicale era il defunto professore, pianista per diletto, fra interminabili discorsi di politici ed accademici e i due operai che presenziano in pausa pranzo, coi panini in mano che sgranocchiano parlando fra loro di cose di ordinaria quotidianità.

Poco fa un mio a me ignoto contatto telematico mi accusava di ingenerosità nei confronti della città dove non sono nato ma che è stata determinante nella mia formazione, fino a quella laurea che poi mi portò a circa ottocento chilometri più a nord. Non mi sento affatto un figlio ingrato quanto, piuttosto, figlio consapevole e critico. Se l’anarchismo e il peloso volemose bene porta ad alluvioni, a lutti e distruzioni, non è colpa mia ma responsabilità identificabili fra classi politiche regionali e loro basi elettorali. Le costruzioni abusive di Casamicciola, attualmente sotto metri di fango, come quelle spuntate irresponsabilmente alle falde di un Vesuvio solo dormiente e per nulla defunto, sono alla base di tragedie evitabili. Il cambiamento climatico in atto non è responsabile quanto, piuttosto, l’irresponsabilità di ognuno di noi che vuole la villa ma anche il condominio popolare dove i nostri avi saggiamente evitavano di edificare. Non effettuavano calcoli sofisticati per i carichi del cemento armato ma quello che edificavano restava su, come il Colosseo che deve i suoi danni non al tempo ma alla mano umana successiva di molti secoli ai tempi delle messe in scena, belve e gladiatori quelli e non nani e ballerine, questi. .

CONTROMATTINALE 284/22

Sono talmente allergico alle ricorrenze, perfino agli stessi compleanni, che da molti anni vivo con un qualche pesante imbarazzo le date che dovrei ricordare ma che, al contrario e forse in maniera nevrotica, tendo a dimenticare. Ci sono poi le date canoniche, dal Natale cattolico al cambio di anno e a quelle non posso sottrarmi, inevitabilmente. Una data che invece mi sfugge, credo istituita di recente, è quella relativa alla violenza contro le donne e penso fosse ieri. Ieri sera la programmazione di prima serata su Rai tre era coerentemente basata su un film britannico che ci illustrava le tristi vicende di una moglie, madre di due piccoline e funestata dal tipico marito violento. Le violenze, domestiche ma non solo, vedono spesso maschi immaturi e nevrotici che scaricano le proprie frustrazioni sulle donne delle loro famiglie. Che si tratti di mogli, fidanzate, compagne o figlie, la violenza fisica, anche di sovente psicologica, è troppo spesso presente nella dinamica di coppia e perfino in quella familiare. Padre e figlie e perfino figlio maschio e madre dolente.

Nel corso dei millenni l’organizzazione sociale si è basata sul patriarcato, molto raramente sul matriarcato, talmente poco diffuso che scommetto come nessuno di voi che mi leggete sappia citarne almeno un caso, al di la del mito delle Amazzoni. E’, per altro, molto facile ricordare come, fin dai primordi, il maschio provvedesse a procacciare cibo e protezione mentre le femmine allevavano la prole e trasformavano i frutti della caccia e della pesca in alimentazione di gruppo. Il maschio dominava, la femmina subiva e questo dato lo si può leggere anche oggi, perfino nelle modalità di rapporto intimo col maschio dominante e la femmina compiaciuta, se non sempre, spesso o spessissimo. Infatti, in barba alla nostra evoluzione socio culturale, a letto si ripropongono schemi ultra millenari. Non a caso perfino le religioni moderne tendono a suggerire un’armonia di coppia in cui non esiste piena parità quanto, piuttosto, separazione dei ruoli e, spesso, pazienza femminile. Infatti troppo spesso la mancata pazienza della donna la trasforma in paziente sanitaria e mentre possiamo contare quasi agevolmente gli uxoricidi, molto più problematico diventa il conto delle lesioni, più o meno gravi. Quanti incidenti domestici, scottature e fratture, sono davvero frutto di caso ed imprudenza e non della violenza incontrollata del maschio?

Il film di ieri sera, apparentemente positivo ed ottimista, racconta la storia di riscatto della donna, appoggiata prima solo dalla sua datrice di lavoro, un’invalida che in breve passa dall’essere vessatoria alla piena solidarietà nei confronti della propria badante e domestica, raccoglie attorno a sé dei volontari che le tirano su, lavorando nei week end, la casetta prefabbricata a basso costo che fra sottoscrizione familiare e manovalanza amicale è lì, nel terreno regalato dalla burbera benefica.

Se a questo punto vi aspettate lo happy end, l’inaugurazione della linda casetta monofamiliare, tutta tronchi esterni e immacolati interni, posso dirvi che una grande festa d’inaugurazione ha davvero luogo ma poi è seguita dal rovinoso e definitivo rogo della nuova residenza. Non ci consola apprendere notizie dell’arresto con la severa condanna del violento piromane, lo stesso che si dipingeva come pentito e redento. Per fortuna l’amaro finale riscatta una trama che sembrava molto orientata all’ottimismo di maniera. Uomini violenti ci sono e ci saranno sempre, così come sempre avremo donne succube e perfino conniventi. Da ex marito di un primo matrimonio e da maschio che ha cercato sempre di non essere bieco, magari non riuscendoci sempre, mi sento di dire come sia davvero difficile trovare equilibrio nella materia. Potrei scatenare una polemica di genere se, ad esempio, citassi la schizofrenia di coppia che vede totale parità quando si è in posizione verticale e che cambia subito modalità nell’intimità orizzontale, non tanto su un prato fiorito quanto in camera da letto. La Biologia prevale su Cultura ed emancipazione di genere? La moderne manager, in camera da letto diventano delle succube o piuttosto, delle uome, dominanti ed umilianti nei confronti del maschio? A questo dovreste rispondere voi, a me manca esperienza diretta illuminante, al di la di qualche mia ipotesi che non sarebbe dimostrabile facilmente.

CONTROMATTINALE 283/22

Una brutta notizia di cronaca, appena appresa, mi stimola a parlarvi di mezzi di trasporto a trazione animale. Se il Codice della strada definiva in quel modo i carretti trainati da cavalli o asini, scomparsi da tempo, oggi abbiamo monopattini e biciclette che si muovono grazie alla nostra “trazione animale”, essendo noi stessi gli animali. Il guaio è che il mondo animale, ad esclusione di quello umano, non ha etica ma ha coerenza di specie, mentre noi che avremmo etica manchiamo spesso di coerenza. Due giovani donne si sono incrociate tragicamente, una ha perso la vita in strada a causa di un incidente stradale cui ha fatto seguito la fuga dell’investitrice. Un tempo avrei stigmatizzato e vituperato l’omicida per questa sua fuga ma oggi posso comprendere, non giustificare, lo choc e il rifiuto di quanto causato. Fuga dal luogo dell’orrore e fuga dalla realtà che si miscelano fra loro.

Nel caso specifico l’investitrice è stata prontamente identificata e siamo rassicurati dal fatto che potrà essere giudicata e sanzionata nelle giuste sedi competenti. Va detto però che chi vive in città come Milano e Roma ha sempre più spesso il problema concreto di monopattini e biciclette che vengono parcheggiati malamente, ostruendo in parte o in toto il passaggio di pedoni. Poco male se si tratta di passanti giovani e in perfetta salute ma se sono madri con carrozzine, anziani, ciechi (ipovedenti è più utilizzato ma i ciechi li chiamiamo zero vedenti?) o costretti in sedia a rotelle, impediti nel passaggio?

Bici e monopattini possono essere recuperati da un passato prossimo o remoto ma non basta utilizzarli per essere immediatamente considerati persone corrette. Si può utilizzare un qualunque strumento corretto in modo scorretto o inappropriato, come nel caso in cui si utilizzi una forchetta per cavare un occhio del nemico o, addirittura, per ucciderlo. Molti anni fa, circa quaranta, ero diventato buon amico di un Doniselli che era titolare dell’omonima fabbrica milanese di bici. Lui viaggiava in aereo con la bici al seguito, convenientemente ripiegata su se stessa e in grado di seguirlo, come bagaglio da stiva. Una volta recuperata e velocemente rimontata, poteva essere da lui utilizzata per inoltrarsi in centri storici, tedeschi e francesi, chiusi al traffico veicolare. Una soluzione brillante ad un problema davvero complesso. Temo però che fosse una rara avis e anche se oggi ha in catalogo delle bici elettriche, dubito che ne possa vendere dei grossi quantitativi.

Se la città dove vivo è incompatibile con l’uso di bici, monopattini e pattini a rotelle, città pianeggianti come Milano possono avvalersi di quei mezzi a trazione animale. Mezzi pericolosi se in movimento ma altrettanto pericolosi se abbandonati senza criterio sui marciapiedi. L’intento ecologista dei ciclisti e dei loro derivati, fra monopattini e pattini a rotelle viene meno appena fermano i loro mezzi, specie se presi in sharing, dimostrando l’intento anarchico del neo ecologista. Se tu molli la due ruote accanto al muretto, io la sistemo di traverso sul marciapiede, va bene? Più ecologisti o più anarchici? Qui da noi, in Italia, le bici non sono dotate di targhette di immatricolazione. Ecco perché non sempre è facile identificare i responsabili di incidenti gravi o sanzionare chi abbandona la bici scompostamente, in posizioni che mi verrebbe da definire oscene. Se la triste vicenda che citavo in apertura ha identificato la colpevole in fuga, quanti altri episodi minuti, meno gravi ma non per questo privi di conseguenze negative restano totalmente anonimi ed impuniti? Se oggi vivo a Venezia, una città in cui quei mezzi sono banditi, salvo le bici giocattolo, posso ricordare ancora con spavento quella volta che, a Milano, uscivo dalla sede del Corriere della Sera e, quasi miracolosamente, avevo evitato un ciclista che pedalava velocemente sul marciapiedi rasentando muri e portoni delle case. Un delinquente? Non credo proprio. Probabilmente un cittadino convinto di essere esemplare nel suo ecologismo. Altrettanto sarà fra quei cialtroni che attentano alla sicurezza di mamme e ipovedenti, fieri del loro ecologismo.

CONTROMATTINALE 282/22

Judy Garland era un’attrice della Hollywood degli anni d’oro del divismo eppure avrei fatto fatica a collocarla in assenza del film intitolato Judy che mi ha coinvolto solo marginalmente, pur avendomi riportato indietro, alla mia infanzia. Come molti film girati negli anni trenta inoltrati, il più noto era Via col vento, Il mago di Oz arrivò da noi con forse dieci o quindici anni di ritardo. Lo ricordo da spettatore bambino e confesso di ricordarlo poco anche se all’epoca non solo lo avevo visto ma credo che ne avessi perfino un libro o un album tratto da quello spettacolo. Allora dovevo essere particolarmente ritardato perché, seppure potessi comprendere l’espediente del trauma che mette assieme realtà e finzione, pur tuttavia mi sfuggirono allora mentre perfino l’abbinamento fra la strega e la maestra mi coglieva impreparato. Io alla mia volevo bene e solo alle Medie ho iniziato a vivere in antagonismo diretto alcuni miei professori.

Poco fa osservavo la filmografia dell’attrice che è corposa al pari di quella di altri personaggi della Mecca del cinema, come era stata ribattezzata la Hollywood di quegli anni di parossismo divistico. Il film di ieri sera, di recente produzione, ci propone la diva alla fine della carriera, non più in California ma a Londra dove si esibisce in una nuova veste artistica, quella di cantante. L’attrice che ne interpreta il ruolo è estremamente credibile sia quando è in fase positiva sia quando, spessissimo, è alterata per alcol, droga e perfino farmaci che erano verosimilmente droghe legali. Non ne ricordavo affatto i numerosi matrimoni, ennesima costante di quegli anni puritani della cultura nord americana e quindi non sapevo nulla di un suo matrimonio con Micky Rooney. Un nome che dirà poco o nulla ai più giovani e che io stesso collego ad interpretazioni giovani che poi nel tempo, ci mostravano l’eterno fanciullo inevitabilmente invecchiato, rughe incluse.

Un’ultima storia d’amore fra lei matura e un molto più giovane di lei amante traffichino, suo improvvisato manager inetto. mi ha poi fatto affiorare alla memoria altre faccende di quegli anni, in quegli stessi ambienti. Chi di voi ricorda Robert Mitchum? Mentre James Steward rischiava la pelle nella sua veste di ufficiale dell’aeronautica, il suo collega Mitchum organizzava festicciole col barbecue in cui fra hot dogs di suino offriva alle giovani convitate anche il suo pene di porco, pare perfino spennellato di salsa di senape. Erano gli anni in cui un’orrida vecchia giornalista, Elsa Maxwell grazie al suo gossip, poteva lanciare una nuova star o anche distruggere una in fase cadente, forse decadente.

Poteva allora accadere che una pistola che sul set era prevista caricata a salve, per un errore, contenesse invece colpi autentici che ammazzavano davvero qualcuno sul set e quindi sul serio. Poteva accadere anche che una diva, Lana Turner, pare con marcate tendenze masochiste, avesse una figlia in età puberale ed un amante italo americano, bello ed aitante ma in odore di criminalità organizzata si trovasse con la figlia quattordicenne che le uccide l’amante che l’aveva sedotta. Considerato il contesto, credo che la ragazzina spulzellata se la fosse cavata al meglio. Poco più di una ramanzina e se ne tornò a casa da mammà che non solo si era liberata definitivamente di un compagno molto scomodo ma, addirittura, pare avesse fatto tutto lei, salvo passare all’ala la responsabilità sulla figlia minorenne. Una brava mamma, dunque? Nossignore perché pare che l’omicidio fosse maturato per altre ragioni mentre la doppia relazione non solo era nota ma era stata addirittura propiziata dall’attrice che non solo manteneva il gangster ma applicava con lui la classica offerta speciale: due al prezzo di uno.

Brutto e sgradevole il mio odierno pezzo ma erano anni brutti in assoluto e, malgrado la mia età, malgrado fossero quelli della mia formazione, non li rimpiango affatto e, anzi, mi sembra che qualche passo avanti in meglio lo abbiamo perfino conquistato.

CONTROMATTINALE 281/22

La rassegna stampa radiofonica che seguo da molti decenni è letta questa settimana da un giornalista del Sole 24 ore che risponde al nome di Beda Romano. Sospetto si tratti di un figlio di Sergio Romano, un signore che pur non essendo più, da molti anni, ambasciatore si continua a chiamarlo in quel modo, anche se da tempo fa o faceva il pubblicista. La mia scarsa simpatia per il padre risale a parecchio tempo fa, a quando “l’ambasciatore” suggeriva al mondo ebraico di assimilarsi, attribuendo poi a Israele tutti i guai di quella zona geografica. Incidentalmente, appena pochi minuti fa ci segnalavano più di un attentato nei dintorni di Gerusalemme, con morti e feriti, la cui origine è nota anche perché esplicitamente rivendicata.

Se un Romano, in pieno ventunesimo secolo, risulta figlio d’arte, posso ricordare sia un’intera schiera di Tesauro, coi due fratelli che erano Rettori all’Università napoletana, uno di Giurisprudenza e l’altro, Rettore magnifico, a Medicina e coi figli, tanti, tutti inseriti nelle facoltà degli zii, per evitare malignità inopportune. Talmente inopportune da aver creato su misura un corso di Diritto Costituzionale Comparato che consentiva ad un Tesauro di mettere, in tal modo, a buon frutto un ricca borsa di studio che lo aveva impegnato a sbronzarsi o peggio in una università nord americana. Sono forse velenoso e rosicone? Non lo escludo affatto ma ormai la mia vita professionale è passato, sempre più remoto, ma di cui posso perfino ritenermi abbastanza soddisfatto.

Fra gli amici di famiglia materna a Napoli contavamo i Graziani, un nome scomodo se consideriamo come loro fossero ebrei mentre un generale loro omonimo fu un fascistone, come si diceva un tempo, e forse perfino criminale di guerra. Le due famiglie Graziani e Foà, la seconda è quella di mia madre, erano molto amiche da generazioni. Se la moglie del professore di Diritto commerciale suonava con mia madre nel nostro salotto il pianoforte a quattro mani, i due professori amici erano stati buttati fuori dallo stesso ateneo napoletano, in quanto ebrei. Poi Graziani era rientrato nel quarantacinque mentre mio zio se ne era rimasto a New York, rifiutando con stizza il tardivo riconoscimento pseudo risarcitorio. Fu così che uno scadente collega di mio zio mi esaminò, ignaro della parentela e mi gratificò con un voto massimo.

Restando in ambito accademico ho appreso poco fa come il nostro mondo accademico sia secondo solo a quello germanico per iniziative gratificate da finanziamenti europei. Se è vero che siamo noti per eccellenze in materie umanistiche, il dato che vi cito pare supreri questo vecchio pregiudizio..Alcuni dei titoli di ricerca ci parlano di spazio e medicina come anche di ingegneria e biologia. Insomma, i nostri giovani ricercatori eccellono ormai in materie in cui un tempo si era fanalini di coda. Sarebbe fantastico se non nascondesse sia i disagi, economici e familiari, dei nostri giovani cervelli, sia la tendenza, non nuova, di quelli ad andarsene, magari proprio in Germania e comunque in Paesi più munifici nei confronti di giovani creativi che non solo sono già produttivi ma lo saranno sicuramente almeno altrettanto nei successivi quaranta o cinquant’anni.

A livello familiare posso citare la figlia di Vittorio Levi, Laura come mia sorella lei non figlia mia ma di mio cugino ed omonimo, che vive da anni in Svezia, come brillante biologa, ricercatrice presso una università locale. La sua brillante laurea napoletana la respingeva verso un opaco insegnamento al liceo, ancora una volta le università sfruttano i giovani non protetti e valorizzano i soliti che nascono nelle famiglie giuste. Adesso vive felice al freddo, spero convenientemente scaldata da un collega, un marito portoghese con cui sta allevando una prole che è mediterranea ma che, ci scommetto, mai più verrà a lavorare al sole mentre verrà a conoscere dei cugini napoletani che, scommetto, saranno senza né arte né parte, come diceva mia made forse settant’anni fa.

CONTROMATTINALE 280/22

Chi mi conosce davvero dovrebbe conoscere sia la mia formazione partenopea, sia anche il mio rapporto conflittuale con quella realtà, geografica, storica, ambientale e culturale. Prima di entrare nell’argomento odierno che, avete capito bene, affronterà un paio di faccende napoletane, lasciatemi dire come ci sia pioggia battente e tuttora buio, come da previsioni meteo che anticipano anche acqua alta, a livello eccezionale, qui a Venezia. In caso, ve ne darò conto domani mentre adesso scendo al sud, a Napoli dove mi sono formato. Ieri sera la trasmissione Report, tutta napoletana, ci ha raccontato fasti e nefasti della città, fra eccellenza gastronomica e bassezze curiali.

Anni fa Report, la trasmissione d’inchiesta aveva accusato, dimostrandolo, come i fumi prodotti dai forni a legna fossero una costante delle pizzerie e come questi potessero essere dannosi, perfino per la salute dei consumatori. La trasmissione di ieri sera, di fatto risarcitoria, ci ha proposto giovani pizzaioli che adesso seguono procedure ben più sane di quanto avveniva allora. Interessante anche la disamina dei prezzi, tutti abbondantemente sotto i dieci euro per le due pizze base, la marinara e la margherita. Ancora più interessante la brutta faccenda delle pizze costosissime, proposte da Briatore, passato dall’olio motore della Formula uno a quello di semi, usato nelle sue pizzerie. Pizze costosissime ma preparate con ingredienti inadeguati e perfino pretenziosi.

Se nei miei ricordi di settant’anni fa c’è una pizzeria stagionale, posta nello stabilimento di Lucrino, si andava lì a fare i bagni di mare, dove sgranavo gli occhi assistendo alla magica preparazione e cottura di marinare e margherite, passo subito a ricordare quella pizza che mangiai in piedi a Port’Alba, indiscusso regno della pizza, pizza piegata in quattro il cui olio colò miseramente sul trench di cui ero fiero liceale ma che non mi fu più possibile continuare a sfoggiare. Ricordi d’epoca che si affollano ma che non vi tedierò ulteriormente nel proporveli. Lasciatemi solo dire come la pizza sia nata a Napoli, immagino spontaneamente, aggiungendo ad un pane basso, un pane arabo del momento, quel pomodoro che era una novità appena arrivata dal Nuovo mondo, integrata da olio mediterraneo, aglio e basilico. Perché la bastardata dell’origano non so dove sia nata ma credo fosse al di fuori della cinta daziaria cittadina. Così come la pizza croccante avrebbe impedito il danno al mio capo d’abbigliamento ma è una bestemmia, perpetrata da Roma in su e allora evviva la pizza morbida che è mille volte meglio di quella “bella croccante”.

Crescenzio Sepe non è croccante ma nemmeno morbido, E’, anzi molto sgradevole anche se cardinale napoletano. Non aveva gradito una precedente trasmissione inchiesta sul patrimonio immobiliare della Curia locale. In una precedente inchiesta si era rilevato come una casa che era stata lasciata in eredità da un filantropo partenopeo con chiara destinazione d’uso, un tetto per poveri, è miracolosamente diventata albergo a molte stelle con camere da centocinquanta euro a notte. Pare che la gestione, privata, abbia riedificato l’albergo a proprio carico, a fronte di un impegno nella cessione semi gratuita per novantanove anni. Il cardinale ha gradito poco che dei giornalisti del servizio pubblico facessero il loro dovere e si è adeguato. Lui deve aver considerato proprio dovere di ruolo e, con mimica davvero sgradevole, ha mandato a….. quel paese i giornalisti del servizio pubblico. Eppure alcune immagini, girate in altra zona cittadina, mandate in onda ieri sera gridavano davvero vendetta. Immaginate una chiesetta antica, sconsacrata ma con una facciata aggraziata, incamerata e circondata da un palazzo di abitazioni private. Non un convento, come usava un tempo, ma un palazzo dove io o voi potremmo vivere, previo contratto di affitto ma anche di compravendita.

Da laico, ebreo napoletano e dubbioso sulla buona fede di parte del clero, specie di quello ai vertici , non azzardo valutazioni, tanto i fatti parlano da soli. Mi domando però come vengano spesi i pochi spiccioli che arrivano in Curia dall’affitto dell’albergo panoramico di cui ho appreso appena poche ore fa. Tipo diecimila euro all’anno, mi capite?

CONTROMATTINALE 279/22

Cresciuto, come ero da ragazzino, a base di pane e film western, non potevo farmi sfuggire ieri sera un classico del genere, intitolato “Quel treno per Yuma”. Non era mica l’originale, credo risalente agli anni cinquanta, era il suo rimake girato una manciata di anni fa. Non me ne sono affatto pentito perché, abbandonato da tempo quel segmento di narrativa cinematografica, mi sono potuto rendere conto di come si possa essere evoluto il pensiero e relativo approccio rispetto all’epopea sulla Nuova frontiera. Il linguaggio di un western moderno è completamente diverso da quello classico, quello della Hollywood di quando ero bambino, con banditi cattivissimi, sceriffi eroici e pellerossa selvaggi, tutti cattivissimi e in caccia di scalpi da esibire e di cavalli da rubare.

Il film di ieri era del tutto fuori ordinanza rispetto al John Wayne che ricorderete tutti, quello stesso che, anche ieri, ci viene proposto in televisione, in un ciclo tutto a lui dedicato. I segni sono sempre importanti e credo che i western di John Wayne, oltre ad essere appunto tagliati con l’accetta che chiarisca subito chi siano “i nostri”, gli eroi positivi, ci proponevano l’attore con un cappello, sempre uguale film dopo film ed era diverso da quelli indossati da Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco e con una Grace Kelly in un bianco e nero mortificante, o di tutti gli altri attori coinvolti nei film di genere, di quel genere lì. Fuori serie il film di ieri, per numerose variabili di cui il protagonista, un assassino, è eroe positivo e, seconda variabile, lo interpreta un Russel Crowe che credo venga dal lontano continente australiano. Poi l’ambiente, coi lavoratori cinesi ma soprattutto coi comprimari compunti nel loro completino da città, niente pistola alla cinta ma bombetta e giacca formale, integrata da cravatta come erano allora, spaghi e, certamente, non di seta e firmate con nomi italiani.

In compenso le sparatorie, i morti ammazzati me li sono persi nei conti mentre la coppia padre figlio che dovrebbe consegnare, dietro lauta ricompensa il bandito, viene divisa definitivamente per la morte del genitore, felice di morire avendo però risolto così per la propria famigliola i guai economici incombenti. Davvero difficile per me comprendere quanto ammiccamento di genere fosse insito in questo crollo di retorica ma, se torno indietro di almeno sessanta anni, lo sceriffo Gary Cooper era anche lui un singolo che, contro tutti, fa valere la sua volontà e rettitudine morale. Famosa la scena in cui, mollata la stella di sceriffo, mentre in calesse si allontana con accanto la sposina ancora da impalmare, ha un ripensamenti doveristico, gira il calesse, torna indietro per ristabilire l’ordine legale che, puoi giurarci, trionferà.

Il guaio serio è che, messo da parte sia quel filone cinematografico, sia gli altri, da quello gangsteristico puro a quelli psicologicamente impegnati, abbiamo la società nord americana che è talmente violenta, da sempre, al punto di dover ricordare due Presidenti, morti ammazzati e non per veneficio come usava nella Roma dei Borgia, ma proprio con armi da fuoco. Ci sono alcuni Stati in cui la circolazione libera di pistole da borsetta, ma anche di armi d’assalto, è un mito fondante cui non si vuole affatto rinunciare. Eppure sembra che oltre ai tantissimi omicidi quotidiani da parte di singoli a danno di singoli, le sparatorie di massa, con morti e feriti in gruppo, siano all’ordine del giorno.

Infatti pare che più di 14mila persone siano morte per arma da fuoco dall’inizio del 2022. Quasi cinquecento persone sono morte in omicidi di massa nell’anno non ancora concluso. Le vittime più recenti sono quattro cittadini di Memphis. Capite? Noi polemizzammo, a giusta ragione, contro chi aveva permesso ad un nostro concittadino, mentalmente disturbato di munirsi di quelle armi automatiche che poi usò, sparando a caso sui passanti sfortunati che vedeva dal balcone di casa. Poi in alcuni Stati americani, credo del Sud, entri in un centro commerciale compri un monile per la ragazza, del cibo per cani e un fucile mitragliatore completo di centinaia di pallottole. Ovvio come non sia necessario lasciare in negozio le proprie generalità se si esce col carrello della spesa, meno normale se hai acquistato la pistola da borsetta o una mezza dozzina di fucili d’assalto.

Un grande paese o un paese grande, quello statunitense? La prima formula entra nel merito, positivo, mentre la seconda è descrittiva sul piano meramente fisico. Io credo che meriti entrambe le formule ma preferisco un’Italia che non mi permette, oggi come oggi, di entrare da un armaiolo e uscirne con una Beretta calibro nove ma neanche con un fucile da caccia, solo apparentemente più lecito ed innocente .

CONTROMATTINALE 278/22

Poco fa ho rilevato dalla rassegna stampa radiofonica un paio di notizie di cronaca minuta che mi hanno colpito comunque e che vi propongo. Si tratta di due incidenti stradali mortali. Il primo vede il numero otto come costante. Un’ultra ottantenne è stata investita e trascinata per otto chilometri, ovvero ottomila metri, prima che l’automobilista se ne fosse reso conto. La seconda vede invece come protagoniste due giovani, la giovanissima uccisa da un’auto che la investe, addirittura sul marciapiede mentre chi guidava era appena più anziana, si fa per dire dato che pare non avesse ancora venticinque anni.

Non so se vi sia mai accaduto, guidando, di impattare con un ostacolo. Per mia fortuna o perizia non ho mai investito nessuno, quadrupedi inclusi ma ricordo ancora la botta sul parabrezza che un uccellino sfortunato provocò schiantandosi sul parabrezza. Perfino gli insetti più corposi si fanno sentire nel loro ultimo istante di vita e dunque mi domando come possa essere che non ci si accorga di aver investito una persona umana. Ammesso che la signora fosse uno scricciolo, sarà stata sicuramente enne volte più pesante di un cane randagio o di un volatile sfortunati. Eppure all’investitore è stato possibile percorrere otto chilometri prima di fermarsi o di essere fermato. Come spesso accade i casi possono essere solo due. O l’investitore era sotto choc e non ha saputo reagire in maniera razionale o, piuttosto, vuoi per alcol, droga o altri fattori stupefacenti, era fuori di sé. Sia come automobilista, oggi a riposo, sia soprattutto come pedone, mi impensierisce alquanto immaginare che un automezzo mal gestito possa uccidermi mentre passeggio lungo un marciapiedi e allora posso congratularmi con me stesso per la scelta, ormai datata, di vivere a Venezia.

Frequentavo, anni fa, per mie esigenze professionali, le statistiche ufficiali, quelle dell’ISTAT per intenderci. Impossibile considerarle attendibili e quindi o ce ne creavamo ad hoc, con rilevazioni del momento, o applicavamo dei fattori correttivi, in crescita o decremento secondo sensibilità ed informazioni personali. Fra di noi, per auto ironia, le definivamo “spannometriche” ma erano un primo tentativo di dare misure laddove non ce ne fossero. Prendiamo ad esempio la popolazione veneziana. Dobbiamo considerare come i residenti locali siano difficili da distinguere, fra veneziani e mestrini. Il CAP potrebbe aiutare ma non lo trovi mica nei documenti personali. Poi, se è vero che molti ex residenti si sono spostati in terra ferma, come usano dire, avranno spostato ufficialmente la loro residenza? Non sarà invece che risultino tuttora in quella stessa casa adibita, piuttosto, a bed and breakfast, letto e prima colazione? D’altra parte la massa di lavoratori, pubblici e privati, che si riversano ogni giorno per andare alle scrivanie e, soprattutto, nelle vicine cucine e sale dei ristoranti o nei negozietti di souvenir cosa sono?

Ogni mattina una piccola folla di lavoratori si riversa nelle calli e nei campi e campielli per rispondere alla domanda di prestazioni necessarie a soddisfare sia i turisti alloggiati in alberghi, sia in case private, spesso perfino informali. A quelli poi si aggiungono i turisti di passo, folle di visitatori che entrano in città al mattino e ne escono verso le diciotto o venti, al massimo. Credo che Venezia sia l’unica città da turismo d’arte che vede ristoranti deserti e chiusi di sera mentre il grosso della loro attività si esaurisce nel corso del pomeriggio, e meno male che i turisti pranzano già dalle undici del mattino e vanno avanti fino a metà pomeriggio. Mi domando allora se si tratti di seconde colazioni tardive o piuttosto di precoci pranzi (cene, secondo una diffusa abitudine lessicale).

A dirla tutta, come sistematizzare i dati numerici della città italiana più atipica che ci sia? Dovremo davvero far staccare dei biglietti, (con diritti SIAE? ) per valutare quanti siano i visitatori giornalieri? Vogliamo portare alle estreme conseguenze la trasformazione in parco tematico da parte di una città che è stata viva e vivace per secoli? Trovo davvero bizzarri quei veneziani che lamentano i fenomeni di cui vi scrivo. Ma benedetta gente, non sono mica io che gestisco B&B clandestini o che faccio lavorare in nero, nelle cucine degli alberghi del centro storico. Spesso infatti alberghi e ristoranti appaltano all’esterno la gestione del personale impegnato in cucine e ai piani degli alberghi. Tutto lecito formalmente ma mette in crisi ogni lecita esigenza di chiarezza, da quella statistica, formale o sostanziale, fino a quella di medicina del lavoro e sindacale.

Piccoli esempi di come ci sia una costante scollatura fra realtà e sua rappresentazione ufficiale. Possibile che il mondo della politica e dei media non se ne accorga? Non sarà, piuttosto, che i dati ufficiali, più facili da maneggiare, riescono a mettere d’accordo parti e contro parti mentre il Paese reale vive una sua normale vita autonoma, non solo qui a Venezia ma in tutto lo stivale?